lunedì 30 agosto 2010

Canale Mussolini

Un bel libro che ha vinto il Premio Strega.
Un invito a leggerlo e a gustarlo anche perchè, magari indirettamente,  vi si parla un pò anche di Magliano.
L'Assessorato alla cultura sta lavorando alla possibilità di una presentazione con la presenza dell'autore.
L'appuntamento dovrebbe essere tra la fine di Ottobre e l'inizio di Novembre 2010.
Una ghiotta occasione culturale che speriamo si possa realizzare.



“Canale Mussolini”, narra la vita quotidiana, più o meno romanzata, di una famiglia di coloni a suo tempo catapultati da certa Politica del Duce dalle parti di Littoria (Latina), per far fruttare alla Patria la Grande Opera delle Paludi Pontine.
Su tale sfondo storico, Antonio Pennacchi, attraverso un neopostrealismo atipico narra la vita quotidiana di tale famiglia, metafora alla luce del Sole della grandezza e la miseria tragica del fascismo, oggi indissolubili, letteralmente, alla luce di certa storiografia più aggiornata,, fermo restando il quadro generale emerso dall’antifascismo stesso.
Pennacchi, anche nella vita, figlio di socialisti, in gioventù simpatizzante del MSI di Almirante, poi dell’estrema sinistra nel 68, infine anche prossimo alla CGL (e puntualmente espulso), non può non convincere, se non altro biograficamente, operaio sul serio per decenni, non virtuale come certi sindacalisti o paladini del popolo.
Questo “Canale Mussolini”, peraltro, ricorda alcuni archetipi forti del Novecento stesso: persino, specularmente, Novecento di Bertolucci, lo stesso Curzio Malaparte, altro sempre politicamente scorretto della politica e della cultura nazionali.
Non ultimo e neppure tacito, ma in primo piano nel romanzo: benvenuta la fine dell’Ideologia, l’eutanasia necessaria e senza nostalgie di rivoluzioni incompiute e anche degenerate.
Ma l’Anima dei popoli, domanda comunque, anche nell’era fredda, forse, di Internet, orizzonti non solo presentisti ma nuovamente memoria di bisogni e sogni, fondamentale per sopra-vivere, non solo sopravvivere anche in mezzo in mezzo a smog e Politica nana ..al Potere!

Altra recensione:

Antonio Pennacchi torna sul sentiero difficile e stupendo della pacificazione, della battaglia estetica e culturale per la memoria condivisa, del gran romanzo popolare e non populista, consacrando il suo nuovo romanzo, Canale Mussolini (Mondadori, pp. 464, euro 20), alla storia della sua città, Latina, e della terra d'adozione della sua famiglia, l'Agro Pontino. E riesce nell'impresa. Riesce perché in questo libro si riconoscono, naturalmente, passione, onestà e dedizione; riesce perché ha saputo documentarsi con precisione e accuratezza, smentendo pregiudizi e stereotipi di tutte le fazioni; riesce perché sente, confida nella breve prefazione, che questo sia il libro per cui è venuto al mondo. E che ogni altra cosa che ha fatto in vita sua, bello o brutta che fosse, è stata interludio o preparazione a questa.
Canale Mussolini è solo apparentemente una saga famigliare; in realtà, è una ciclopica opera di storia e di memoria di un esodo rimosso dalla cultura italiana; quello dei trentamila agricoltori e operai veneti, friulani e romagnoli che, in una manciata d'anni, vennero trasferiti nell'Agro, destinati a fare l'impresa della bonifica d'una terra tormentata dalla malaria. Le loro erano famiglie proletarie, in cui i figli erano e restavano una ricchezza, perchè servivano a lavorare la terra. Erano famiglie poverissime, abbandonate dall'Italia savoiarda al loro destino: "La politica, i diritti civili, il parlamento, lo Statuto albertino" erano roba per signori; erano roba per chi aveva diritto di voto – nè poveri, nè donne. Erano famiglie predestinate all'emigrazione, come centinaia di migliaia di altre, in quel periodo storico; soltanto, poterono emigrare in Italia. Certo, "Per la fame. Siamo venuti giù per la fame. E perché se no? Se non era per la fame restavamo là. Quello era il paese nostro. Perché dovevamo venire qui? Lì eravamo sempre stati [...]".
Pennacchi sceglie una famiglia su tutte – quella dei Peruzzi – e incrocia con intelligenza i loro destini, sin dagli anni Dieci, con quelli dei socialisti, e dei sindacalisti rivoluzionari. Così, incontriamo i loro leader dell'epoca; incontriamo il giovane Rossoni, uno capace di farsi tre comizi in un giorno, appassionato tribuno della plebe, capace di finire in carcere per l'Idea, e il giovane Mussolini, ancora carismatico e iconoclasta leader d'un socialismo radicale, nemico del capitale e delle guerre dei capitalisti. Incontriamo De Ambris, una manciata d'anni prima dell'impresa fiumana, e Pietro Nenni, romagnolo repubblicano, prima ancora d'essere socialista, una parentesi nelle patrie galere al fianco del futuro duce. Man mano che la nazione scivola nel fascismo, dopo i dolorosi anni della Prima Guerra Mondiale, i Peruzzi sembrano aderire perché hanno fiducia nei loro vecchi amici e leader, Rossoni e Mussolini; sentono di non poter essere traditi, hanno la sensazione che la strada sia giusta. "Fatto sta che nel 1920 i miei zii si erano messi col fascio di Ferrara e andavano tutti i giorni in giro per i paesi della Bonifica Ferrarese con i camioni, i 18BL avanzati dalla guerra. Tra novembre e dicembre li hanno messi a ferro e fuoco tutti. Bruciate le camere del lavoro, sezioni socialiste e leghe. Quegli altri – i rossi – non è che stessero a guardare. Sparavano. Reagivano. Si difendevano. Ma ogni giorno sempre di meno. Lo scontro era militare ormai – guerra civile – tu di qua e io di là".
Questa cieca fiducia del popolo, e della paradigmatica famiglia Peruzzi, nella buona fede e nella generosità dei vecchi socialisti diventati fascisti è la madre del romanzo, e spiega tanto di come vivevano e sentivano le cose i nostri compatrioti, nella prima metà del Novecento. Pennacchi ci racconta, con la dolcezza e la semplicità del cantastorie, quanto naturale e splendido fu il sacrificio degli emigrati settentrionali nell'Agro Pontino per animare quello che sulle prime apparve loro come un "tappeto di biliardo", "neanche più una goccia d'acqua, un filo d'erba"; Pennacchi ci ricorda, senza retorica e senza partigianerie, l'orgoglio della nascita delle città di fondazione; infine, ci accompagna nei giorni atroci e insanguinati della caduta del regime, confidando qualcosa che sui libri non s'è letto, a proposito della lealtà dei pontini. Questo romanzo è scritto per insegnare alle nuove generazioni cos'è stata la sofferenza della povera gente, in Italia, e cosa la grande illusione d'un loro riscatto. Infine, e soprattutto, è stato scritto per eternare la storia di una delle più grandi imprese italiane del Novecento. Quella della creazione della vita là dove altro non era che miseria, e morte. Memorabile.
Il libro è innervato da robusti inserti in un dialetto, quello veneto-pontino, estraneo – chiosa l'autore, nella nota filologica in appendice – sia a Goldoni che al Veneto odierno. Perché "Il nostro è un impasto di rovigotto, ferrarese, trevigiano, friulano eccetera – contaminato da influenze laziali – privo di strutturazione grammaticale fissa, con le vocali ora aperte ora chiuse e le desinenze che cambiano da podere a podere e da situazione a situazione, anche spesso nello stesso parlante" (p. 457). L'impatto nella narrazione è fresco, vivace, scintillante e credibile.
Le pagine più impressionanti sono quelle dedicate allo scenario dell'Agro Pontino, alla sua storia e agli aspetti antropologici e sociali del suo popolo. Entriamo nel vivo, campionando qualche passo. Per prima cosa, Pennacchi ci racconta che la bonifica moderna delle Paludi Pontine non è stata merito esclusivo del fascismo: ci aveva già pensato Filippo Turati assieme a Nitti, nel 1919, dopo la Grande Guerra. Il progetto naufragò trasformandosi in una miniera di corruzione, della serie "piglia i soldi e scappa" (cfr. pp. 48-49). In passato, avevano tentato l'impresa i Romani, "i papi e Leonardo da Vinci, Napoleone, Garibaldi; ma la palude aveva sempre vinto lei".
Le Paludi Pontine erano "un inferno che pochi anni prima arrivava dalle mura di Roma fino a Terracina; oltre settecento chilometri quadrati di pantani, stagni, foreste impenetrabili con serpenti di oltre due metri e stormi di zanzare anofeli che guai a chi ci entrava. Se non finivi nelle sabbia mobili t'attaccavano la malaria le zanzare, ed eri fatto" (p. 139).
Erano, insomma, "un insieme misto di stagni e terre sommerse con terre pure emerse ed estese, ma preda di foreste impenetrabili, forre, rovi, animali e spinaccia. E dentro le foreste e gli spinaceti altri stagni chiamati 'piscine', soprattutto sulla duna quaternaria perché ogni più piccolo avvallamento – costituito nei suoi strati superiori da argilla – una volta riempitosi d'acqua nei mesi invernali restava allagato e stagnante, putrido e marcescente fino a tutta l'estate" (p. 141).
Mussolini, convinto alfiere del ruralismo e della deurbanizzazione, sulle prime era contrario all'edificazione di città, da quelle parti. "Fuori dalle città, via in campagna: è questa la vera mistica fascista", diceva. E il fascio, chiosa Pennacchi, "la gente ce la teneva con la forza".
La gente, da quelle parti, camminava scalza – e così è stato fino all'arrivo del benessere, nel 1960: e scalza veniva sepolta, mantenendo vivo un vecchio rito del basso rovigotto (p. 187). Le cittadine erano piene di osterie, spesso col gioco delle bocce davanti, "e i nostri vecchi stavano sempre ubriachi" (p. 306). Il narratore di Pennacchi sospetta che i venticinquemila osti rimasti senza lavoro nel 1928, in tutta Italia, si siano trasferiti in blocco nell'Agro. È una provocazione intelligente.
L'energia elettrica, ancora nel 1932, mancava: esisteva solo, assieme a telegrafo, telefono e fogne, nei borghi e nelle città. La luce, da quelle parti, si faceva col lume a petrolio o a carburo; per il pozzo c'era una pompa di ferro, fatta a forma di fascio, con le verghe attorno (p. 215).
Ancora una curiosità. Una delle tradizioni portate nel Lazio dai Veneti era quella del "filò"; ci si riuniva, tutti a sera, dopo cena, "ora in un podere ora in un altro a raccontarsi storie, fòle, favole e roba del genere, al lume di candela o di petrolio. D'inverno ci mettevamo in stalla, assieme alle bestie perché faceva più caldo. Lei doveva vedere la gente che si portava da casa la sedia o uno sgabello, per paura di restare in piedi. [...] D'estate invece in strada, seduti sulle spallette dei ponti" (p. 300). A questo rito s'aggiunse quello del ballo sull'aia, importato dai ferraresi.
Da leggere. È buona letteratura, è grande memoria.

2 commenti:

Buona lettura ha detto...

Per gente come noi la cultura e la conoscenza sono universali e non relegate o configurabili solo a un ideologia politica.
Ritengo che per i "meno acculturati" questo post sarà fonte di polemiche e conferma delle illazioni sulla collocazione di M.I. e I. x M.

Anonimo ha detto...

E 'vero! Mi piace la tua idea. Offerta di consolidare l'argomento.
E 'vero! Credo che sia una buona idea. Sono d'accordo con te.